domenica 17 dicembre 2023




Leggendo "Oltre la Via", ci immergiamo in un arco di tempo di circa un secolo in un mondo fatto di terra e di uomini che da essa traggono sostentamento, un mondo dove imperversano temporali della vita, fatto di corpi lacerati dalla fatica e dalla sofferenza. Anime affrante che sembrano rasserenarsi nel corso del tempo solo arrivando negli anni vicino a noi, quando giunge la luce del progresso, ma esse subito si velano di un'onirica inquietudine che fa prefigurare le catastrofi del mondo attuale e di un Molise in affanno.    

"Oltre la via" è un'opera che ogni molisano attempato avrebbe voluto scrivere. Chi è nato nei primi decenni del dopoguerra ci si ritrova, perché quel mondo lo ha in gran parte vissuto. 

Dall'esterno, attraverso un narratore onnisciente, l'autore riesce a dipanare una serie di fatti e azioni con una prosa attenta, direi levigata, in cui la descrizione prova a riempire tutti gli spazi della immaginazione, dando una profonda definizione agli avvenimenti e agli ambienti in cui si muovono i protagonisti. 

L'autore con la sua narrazione riesce ad entrare nel pensiero profondo dei personaggi fino a descriverne l'anima, imprescindibile dal contesto in cui sono inseriti.

Persino i luoghi, tracciati nei confini, attraverso il ricordo e l'uso del dialetto sembrano vivere di odori e sensazioni tattili che ci riportano a sentire l'affanno di vite umili, ombre della povertà, che si allungano sulla terra in un disperdersi di sensazioni drammatiche appese allo strazio della fine. (p.37) 

Il paese, i vicoli e le campagne sono segnati dall'acqua che scorre, che bagna e disseta, persino gli spasmi di un amore rubato, quello delle passate generazioni di giovani che attorno ad una fontana iniziavano le loro danze per accasarsi.

È proprio l'acqua che in un contrappunto segna la fine del racconto. Carmela, la mamma di Valentino, si mostra con i piedi immersi nell'acqua torbida, un'immagine che ci suggerisce la realtà odierna in cui è difficile guardare con trasparenza.

Come in un romanzo esotico, lontano, fatto di una solitudine confinata in ciò che rimane di una terra antica, Cornacchione narra la saga di una famiglia. In questo modo Limosano, Santo Stefano e Campobasso rimangono topos del ricordo. Tutto si dipana in una serie di riferimenti storici tra il fascismo e gli inizi del secondo millennio, dalla radio a valvole e l'emigrazione alle Cantine aperte di Limosano. Un percorso dove i coniugi Armando e Carmela e il figlio Valentino vivono assieme a fratelli, nipoti, parenti e vicini, vicende che rappresentano uno spaccato molisano. Tutti figli di una Terra che si mostra in difficoltà, un luogo che accoglie ma non risolve. Dove resta completamente assente un ceto che dirige, che spesso si trasferisce nelle città più grandi, un ceto fatto di possidenti, meglio proprietari, che persino negli anni vicino a noi rifiuta ogni segno di rinnovamento culturale, tanto che la sola vista dell'immagine di un rivoluzionario come Ché Guevara dipinta su un muro può creare inquietudine e rifiuto.

La fabula scorre nella descrizione di un Mondo devastato nell'anima. Le difficoltà vengono affogate nell'alcool. 

Il Molise è una terra martoriata nelle vicende umane su cui incombe una drammatica esistenza. In cui ci si sente sempre lontani dal clamore dei grandi accadimenti della storia, dove ancora oggi dietro le pieghe della presunta innovazione, Carmela, donna tanto amata dall' ultimo figlio Valentino, avuto a tarda età, appare piangendo lacrime di dolore. Un dolore atavico che ritroviamo nelle immagini di "Alba e non alba" di Luigi Di Jacovo o nella rassegnazione dei "cafoni" di Silone, come pure in quello urlato da Immacolata per la morte di  Luca Marano nelle "Terre del Sacramento" di Jovine. Un dolore che in Giovannino Cornacchione si dissolve e si acquieta nella poesia, flusso ancestrale che tacitamente gli parla dal passato e che cancella ogni residuo di certezza. 

Osservando le occorrenze, oltre alle parole fatica, terra, amore, morte, vecchio, freddo e lacrime, la parola acqua assieme a vita ricorrono con più frequenza. Esse si compenetrano in essenza cristallina in cui si discioglie la bellezza.

"Armando tornò senza preavviso. Scese da un autobus sgangherato nella piazza desolata del paese, un pomeriggio di luglio, mentre pioveva a dirotto e in giro non c'erano neanche i cani. Scese lentamente, tirandosi dietro. un vecchio zaino militare e, senza curarsi della pioggia, si incamminò con passo insicuro e stanco verso la scalinata ripida che conduceva nel borgo antico. L'acqua scendeva ovunque rumorosa, tiepida, creando torbidi rigagnoli che, zigzagando tra gli usci, sparivano pigramente tra le nebbie basse della valle, formando cascatelle schiumose e pozzanghere dentro le quali si fermava a sguazzare con gli scarponi bucati avuti in dotazione dall'esercito anni addietro. Avanzava a passo lento, annaspando, ma era proprio quella pioggia a dargli vigore. Sentiva le gocce scorrergli lungo la schiena e pensava che negli ultimi anni, da quando era partito, tanta bellezza non gli era mai capitata, l'aveva completamente dimenticata." 

Spesso l'acqua assieme al freddo e al gelo mordono così forte le vite che finanche la morte deve fermarsi. Bisogna aspettare cinque giorni prima di seppellire Nicolino 

"... tutti si strinsero intorno in un abbraccio solidale e disperato. In quella casa era sceso un freddo glaciale, peggiore della tormenta. E non ci sarebbe più stato fuoco capace di intiepidire quelle vecchie mura. Il gelo era palpabile, si poteva sfiorare con le mani, si sentiva in ogni sguardo, in ogni respiro, dentro quei gemiti stanchi rivolti  all'angelo gelo ibernato ...". (pp.43, 64, 66,145,195). 

Un freddo dove l'unica fiammella a sopravvivere sono la generosità e il valore etico di un mondo non fatto di vinti, né di maschere affidate all'ironia della esistenza, ma da semplici sventurati abbandonati a un destino che ha il sapore della fame e della terra, l'unica dea che dà scampo e porta alla sopravvivenza minima e alla gioia di esistere. Quella gioia che in inverno deve fare i conti con la legna, limitata della catasta, che deve bastare fino alla fine della stagione fredda. Una gioia che si ravviva al calore dei primi soli di primavera, allorquando si è sicuri di averla scampata.

Il racconto diventa così un ricordo primordiale in cui la ragione ha la meglio sull'istinto delle persone, i cui drammi germinano nella terra, quella che si attacca al corpo, alle scarpe e ai vestiti, e che nei temporali irruenti intorbida le acque dei fiumi, la stessa dalla quale germogliano querce che, nonostante siano spinte dal vento impetuoso, resistono al tempo.

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