domenica 17 dicembre 2023

Altrove





"Fatti non foste per vivere come bruti, ma per perseguire virtù e canoscenza." Quando vogliamo parlare dell'uomo, bisogna ritornare sempre ai classici, a Omero, a Dante. 
Il sommo poeta sottolinea l'idea che l'umanità è chiamata a raggiungere obiettivi più elevati come la virtù e la conoscenza, anziché vivere solo per soddisfare gli istinti animali e materiali.

A conclusione della lettura del libro, sono tornato subito alla citazione di Kavafis che Lombardi fa all'inizio del libro, che si riferisce a Itaca, l'isola lasciata da Ulisse per i suoi viaggi, l'isola mitica che ognuno di noi lascia e alla quale si ritorna tanto saggi ed  esperti che solo allora ne possiamo apprezzare il valore.

Il lavoro di Lombardi penso sia di uno studioso attento a cogliere i dati scientifici attraverso la storicizzazione di quelli che sono i fatti. Il suo impegno è superare la retorica della diaspora, tanto da mostrarne i segni più vividi e più drammatici attraverso la testimonianza diretta di chi maggiormente l'ha vissuta, non solo come semplice testimone ma anche come uomo che ne ha toccato i punti più critici e più alti dal punto di vista delle conoscenze e dell'esperienza nei vari ambiti della vita: da quello artistico e letterario a quello della politica e dell'economia, per toccare infine quello scientifico e della ricerca.

Lo fa con il metodo dell'intervista e dello storico con un'attenzione alla sociologia. Le venti interviste sono vere e proprie piccole autobiografie che mettono in luce l'importanza del luogo degli affetti, composto non solo di carezze e attenzioni ma anche di discorsi che disvelano la scoperta del mondo. I percorsi di vita dei protagonisti suggeriscono un "altrove", un luogo dove si affermano sia le proprie aspirazioni sia il proprio io. 

Lo spazio da cui si parte per la scoperta del mondo e dell'altrove è quel microcosmo chiamato Molise, semplice e genuino, fatto di campagna e piccole strade, luoghi minimi dell'anima, terra mitica a cui fare ritorno (Rimanelli, Monaco, Vaccaro, ...), ma anche luogo di partenza o di ritrovo che è in grado di dare quel sostrato psicologico per far crescere caratteri forti in grado di affrontare le asperità del vissuto oltre le quali si arriva a grandi traguardi nell'ambito degli studi e delle scienze (Antonelli, Persichilli, Oriundo, Iannacito, Forte, Palladino, Casilli).

Comunque in questo libro, che si innesta in quella letteratura della migrazione, Norberto Lombardi riesce, trovandosi di fronte a stili e personaggi appartenenti a periodi diversi, a dare una fluidità di contenuti in cui si disvela una traccia che porta quasi a una sublimazione di quello che è il dramma della emigrazione di ieri come di oggi. 

Ed è proprio grazie alle ultime testimonianze di due protagonisti dell' "Altrove", una l'abbiamo qui stasera con noi, Simona Palladino - docente alla Liverpool Hope University - l'altro è Antonio Casilli - professore ordinario di sociologia nella scuola di telecomunicazioni dell'Istituto Politecnico di Parigi - due scienziati molisani che conoscono molto bene la società mondiale, che riusciamo ad intendere esplicitamente uno dei tanti sentimenti che hanno segnato le vite di tutti gli "intellettuali" del libro di Lombardi, in cui spesso le parole "fuga", "ritorno" e "origine" hanno un peso enorme, una valenza psicologica di riscatto che segnano il carattere dei protagonisti stessi. 

I due professori ci lasciano capire concretamente perché si sceglie un "altrove". Palladino ci parla del senso della libertà di dire non mi sono accontentata, di dimostrare a se stessi e al mondo "posso fare di meglio" qualcosa che non ha prezzo e spesso vale la vita stessa, soprattutto se il potere ci vuole piegati al proprio edonismo.

Con una veduta sulle problematiche del Mondo, invece, da esperto di economia dei dati e da informatico, Casilli ci mette in guardia sulla retorica della diaspora rispetto alle nuove migrazioni e ai nuovi poteri che umiliano l'umanità e ci parla di quanto la nostra società globale abbia cambiato le prospettive rispetto alla dignità umana, evidenziando come in una società retta dalle multinazionali dell'informatica stia crescendo uno sfruttamento che fa emergere un "proletariato del digitale".

Mi chiedo, allo sfruttamento e all'umiliazione in passato si poteva rispondere con una fuga dalla propria terra per cercare un "altrove", oggi rischiamo persino di non poter sognare quell'altrove?



Jelsi, 27 luglio 2023 




Leggendo "Oltre la Via", ci immergiamo in un arco di tempo di circa un secolo in un mondo fatto di terra e di uomini che da essa traggono sostentamento, un mondo dove imperversano temporali della vita, fatto di corpi lacerati dalla fatica e dalla sofferenza. Anime affrante che sembrano rasserenarsi nel corso del tempo solo arrivando negli anni vicino a noi, quando arriva la luce del progresso, ma esse subito si velano di un'onirica inquietudine che fa prefigurare le catastrofi del mondo attuale e di un Molise in affanno.    

"Oltre la via" è un'opera che ogni molisano attempato avrebbe voluto scrivere, chi è nato nei primi decenni del dopoguerra ci si ritrova, perché quel mondo lo ha in gran parte vissuto. 

Dall'esterno, attraverso un narratore onnisciente, l'autore riesce a dipanare una serie di fatti e azioni con una prosa attenta, direi levigata, in cui la descrizione prova a riempire tutti gli spazi della immaginazione, dando una profonda definizione agli avvenimenti e agli ambienti in cui si muovono i protagonisti. 

L'autore con la sua narrazione riesce ad entrare nel pensiero profondo dei personaggi fino a descriverne l'anima, imprescindibile dal contesto in cui sono inseriti.

Persino i luoghi, tracciati nei confini, attraverso il ricordo e l'uso del dialetto sembrano vivere di odori e sensazioni tattili che ci riportano a sentire l'affanno di vite umili, ombre della povertà, che si allungano sulla terra in un disperdersi di sensazioni drammatiche appese allo strazio della fine. (p.37) 

Il paese, i vicoli e le campagne sono segnati dall'acqua che scorre, che bagna e disseta, disseta persino gli spasmi di un amore rubato, quello delle passate generazioni di giovani che attorno ad una fontana iniziavano le loro danze per accasarsi.

Èd proprio l'acqua che in un contrappunto segna la fine del racconto. Carmela, la mamma di Valentino, si mostra con i piedi immersi nell'acqua torbida, un'immagine che ci suggerisce la realtà odierna in cui è difficile guardare con trasparenza.

Come in un romanzo esotico, lontano, fatto di una solitudine confinata in ciò che rimane di una terra antica, Cornacchione narra la saga di una famiglia. In questo modo Limosano, Santo Stefano e Campobasso rimangono topos del ricordo. Tutto si dipana in una serie di riferimenti storici tra il fascismo e gli inizi del secondo millennio, dalla radio a valvole e l'emigrazione alle Cantine aperte di Limosano. Un percorso dove i coniugi Armando e Carmela e il figlio Valentino vivono assieme a fratelli, nipoti, parenti e vicini, vicende che rappresentano uno spaccato molisano. Tutti figli di una Terra che si mostra in difficoltà, un luogo che accoglie ma non risolve. Dove resta completamente assente un ceto che dirige, che spesso si trasferisce nelle città più grandi, un ceto fatto di possidenti, meglio proprietari, che persino negli anni vicino a noi rifiuta ogni segno di rinnovamento culturale, tanto che la sola vista dell'immagine di un rivoluzionario come Ché Guevara dipinta su un muro può creare inquietudine e rifiuto.

La fabula scorre nella descrizione di un Mondo devastato nell'anima. Le difficoltà vengono affogate nell'alcool. 

Il Molise è una terra martoriata nelle vicende umane su cui incombe una drammatica esistenza. In cui ci si sente sempre lontani dal clamore dei grandi accadimenti della storia, dove ancora oggi dietro le pieghe della presunta innovazione, Carmela, donna tanto amata dall' ultimo figlio Valentino, avuto a tarda età, appare piangendo lacrime di dolore. Un dolore atavico che ritroviamo nelle immagini di "Alba e non alba" di Luigi Di Jacovo o nella rassegnazione dei "cafoni" di Silone, come pure in quello urlato da Immacolata per la morte di  Luca Marano nelle "Terre del Sacramento" di Jovine. Un dolore che in Giovannino Cornacchione si dissolve e si acquieta nella poesia, flusso ancestrale che tacitamente gli parla dal passato e che cancella ogni residuo di certezza. 

Osservando le occorrenze, oltre alle parole fatica, terra, amore, morte, vecchio, freddo e lacrime, la parola acqua assieme a vita ricorrono con più frequenza. Esse si compenetrano in essenza cristallina in cui si discioglie la bellezza.

"Armando tornò senza preavviso. Scese da un autobus sgangherato nella piazza desolata del paese, un pomeriggio di luglio, mentre pioveva a dirotto e in giro non c'erano neanche i cani. Scese lentamente, tirandosi dietro. un vecchio zaino militare e, senza curarsi della pioggia, si incamminò con passo insicuro e stanco verso la scalinata ripida che conduceva nel borgo antico. L'acqua scendeva ovunque rumorosa, tiepida, creando torbidi rigagnoli che, zigzagando tra gli usci, sparivano pigramente tra le nebbie basse della valle, formando cascatelle schiumose e pozzanghere dentro le quali si fermava a sguazzare con gli scarponi bucati avuti in dotazione dall'esercito anni addietro. Avanzava a passo lento, annaspando, ma era proprio quella pioggia a dargli vigore. Sentiva le gocce scorrergli lungo la schiena e pensava che negli ultimi anni, da quando era partito, tanta bellezza non gli era mai capitata, l'aveva completamente dimenticata." 

Spesso l'acqua assieme al freddo e al gelo, mordono così forte le vite che finanche la morte deve fermarsi. Bisogna aspettare cinque giorni prima di seppellire Nicolino 

"... tutti si strinsero intorno in un abbraccio solidale e disperato. In quella casa era sceso un freddo glaciale, peggiore della tormenta. E non ci sarebbe più stato fuoco capace di intiepidire quelle vecchie mura. Il gelo era palpabile, si poteva sfiorare con le mani, si sentiva in ogni sguardo, in ogni respiro, dentro quei gemiti stanchi rivolti  all'angelo gelo ibernato ...". (pp.43, 64, 66,145,195). 

Un freddo dove l'unica fiammella a sopravvivere sono la generosità e il valore etico di un mondo non fatto di vinti, né di maschere affidate all'ironia della esistenza, ma da semplici sventurati abbandonati a un destino che ha il sapore della fame e della terra, l'unica dea che dà scampo e porta alla sopravvivenza minima e alla gioia di esistere. Quella gioia che in inverno deve fare i conti con la legna, limitata della catasta, che deve bastare fino alla fine della stagione fredda. Una gioia che si ravviva al calore dei primi soli di primavera, allorquando si è sicuri di averla scampata.

Il racconto diventa così un ricordo primordiale in cui la ragione ha la meglio sull'istinto delle persone, i cui drammi germinano nella terra, quella che si attacca al corpo, alle scarpe e ai vestiti, e che nei temporali irruenti intorbida le acque dei fiumi, la stessa dalla quale germogliano querce che, nonostante siano spinte dal vento impetuoso, resistono al tempo.

lunedì 1 agosto 2022


Un momento della presentazione del libro
Jelsi - 31 luglio 2022


COME UNA PICCOLA NUVOLA

(Cikala Mahpiya)

di Pierluigi GIORGIO

Ed. Ephemeria, 2021


Sarà una piccola nuvola, è una piccola nuvola che il cielo ospita d’estate, è Piccola nuvola il nome indiano dell’autore di cui parliamo. 

Cikala Mahpiya, chiamano gli Indiani d'America Pierluigi Giorgio.

Una piccola nuvola che racchiude in questo libro un sé, che è il vissuto di una vita. Un percorso di crescita interiore che prova a mettere ordine all’accadere quotidiano. 

Sospinto ad entrare nella visione del mondo degli Indiani d’America, condividendone le loro visioni e la loro filosofia, l’autore non abbandona il suo lettore ma lo prende per mano e lo guida continuamente a vedere e a sentire ciò che i suoi sensi percepiscono. Tutto inizia dalle difficoltà nel comprendere la società di oggi, dove le apparenze e le maschere, come quelle pirandelliane, segnano la crisi dell’uomo. Non a caso la crisi del protagonista nasce mentre interpreta l’Enrico IV del premio Nobel siciliano.

Enrico IV è vittima non solo della follia ma dell'impossibilità di stare in sintonia con una realtà che non gli si confà, essendo ormai stritolato dal ruolo che gli è stato dato. 

Enrico IV di Pirandello è, quindi, metafora dell'uomo moderno con tutte le sue problematiche. 

Sebbene pazzo, lo si connota come personaggio positivo, distruttore di verità fittizie ma, al contempo, è anche sinonimo di repressione volontaria, di volontario senso della rinuncia.

È un po’ quello che succede al pittore Mouline a cavallo dell’Ottocento, che si isola dal mondo che sempre più viene pervaso dal mercato e dall’industria. È quello che succede al protagonista attore, che rompe l’incantesimo di una vita di successo, sempre uguale, ripetitiva, fatta di maschere che sempre più  perdono la loro forza. 

Unica soluzione: rifugiarsi in Molise. Terra d’origine dalla quale in gioventù se ne era allontanato, ma che poi ritrova  riconoscendone la grande forza che lo rigenera e lo spinge a maturare una nuova consapevolezza: tutta la Terra è il nostro mondo, e di essa va cantato ogni essere che ci riporta a quegli equilibri rappresentati dai valori vissuti e praticati che ritroviamo nei personaggi, che mostrano l’essenziale, rappresentato da il bene e il vero. 

Così Saint Exupery ne Il Piccolo Principe: “Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

In quest’opera si canta il Molise. Un’Arcadia riconquistata grazie al sacrificio che parte dall’arte teatrale, che diventa arte universale vissuta attraverso gli occhi e i pastelli di un uomo, l’artista Charles Mouline, che ha saputo abbandonare il successo dominato dal mercato per abbracciare il gesto artistico assoluto, compiuto attraverso la rappresentazione della luce. La stessa che il nostro autore sembra trovare nella ritualità della “Sun Dance”, la danza del sole degli Indiani d’America.

L’esperienza tra gli indiani infonde nell’autore una riconquista di un mondo spontaneo che fa ben capire come l’uomo si sia allontanato dalla natura. 

La “crisi” viene così raccontata attraverso tre storie parallele, che hanno il sapore dell’intreccio che a momenti si fa “giallo”. Dalla osservazione, dagli occhi sgranati dei personaggi, aperti in modo eccessivo, sembra che l’autore voglia far passare l'impossibilità di comunicare tra gli uomini. 

L'espressione  “… guardandomi negli occhi, proprio dentro gli occhi…”  - della sua compagna - prefigura una comunicazione impossibile in cui mancano azioni o parole, un vuoto dell’anima che può essere riempito solo con un ritorno alla natura, alle cose semplici, al calore della terra “cruda e rigogliosa”, al  latte appena munto, allo scroscio dell’acqua dei ruscelli, ai germogli che affiorano e fanno primavera, al battito delle folate di vento, quel vento difficile da cantare e tanto caro a Gian Maria Volonté. 

In questo modo si sovrappongono fili di vita e la storia si fa macchinosa, ma poi l’intreccio si dipana attraverso personaggi diversi, paesani, umili uomini dalla profonda saggezza, macchiette teatrali che recitano la loro parte solo per sostenere lo spettacolo della vita, uomini sconfitti in partenza, dipinti su uno sfondo che è la genuina bellezza delle terre del Molise: rocce e prati di montagne che affiorano in valli digradanti, sfumature di cielo e di terre, dove queste si impastano di sapore amaro e di storia di anni, di secoli e millenni. Tutto diventa un caleidoscopio di voci e pensieri, mai sfocati, sempre vividi, attraversati da un sentimento d’amore per le cose e per le persone: anche quando i colori mutano e, come diceva Moulin, si fa fosco il cielo e “le cose assumono un’espressione tragica di potenza e di terrore”.  Allorquando sembra che l’amore si tramuti in tristezza, la stessa che pervade il ricordo dei tempi passati, un raggio di sole interrompe il pianto e dà vita al sogno per ricominciare “da lì, mano nella mano”.

La narrazione che all’inizio è interna, dove il tempo è segnato dai giorni, successivamente si fa esterna, forse un falco, forse una nube racconta da lassù nel cielo, conosce tutto dei suoi personaggi e piano piano li guida, scende tra loro e ne canta l’anima, attraverso personali parole e di altri poeti. Anche la prosa si fa alta. Le anime dei personaggi principali si uniscono all’unisono con quella dell’autore, il quale sembra voglia sentirsi vicino al pittore Moulin, dal quale ne assorbe la linfa che ancora scorre tra i luoghi del Molise. Un altro da sé sembra perdersi tra le montagne di Castelnuovo e del Molise, un alter ego perduto e ritrovato. 

Tutto diventa familiare, persone, luoghi con cui l’autore entra in empatia e ne riconosce la forza che lo cura: unico ristoro, per un corpo vecchio e una mente stanca affollata da un tempo vissuto lontano in un mondo alieno che prende e non dà. 

Il Molise si fa terra personificata nei suoi colori e nei suoi elementi. Una madre ritrova nella carezza delle onde del mare il figlio scomparso nei gorghi marini della seconda guerra mondiale, lo scroscio del ruscello è quello che trasporta nei sogni e nei ricordi diventando acqua che culla e addormenta e annulla le fatiche e rigenera il tempo che consuma. 

Nella parte finale, quasi a chiudere un cerchio, il ritorno alla narrazione interna in prima persona. Lo scandire del tempo è segnato da pagine di diario che ci riportano alle esperienze dirette: soprattutto a quella tanto desiderata della “Sun Dance”  fatta con un ritorno tra gli indiani. Un’esperienza che conclude un percorso di crescita interiore, in cui riusciamo a capire che la libertà si coglie custodendo quel sentimento di rispetto per le cose e per gli uomini, dove i rapporti autentici, il bene per le persone deve essere voluto. Mentre il male spesso è il rifiuto di un sogno, è la distrazione per una persona cara, è la mancanza di coraggio.

Come in un'idea di Grotowschi, l'attore narratore Pierluigi Giorgio fa della sua arte lo strumento che gli permette di liberare ricordi ancestrali ed energie cosmiche. Il Molise è la sua culla, il luogo dove la sua arte si fa racconto così come suggerisce Clarissa Pinkola Esteés:

"Sempre quando si narra una favola, cala la notte. Non importa il posto, il tempo o la stagione: raccontare favole fa sì che un cielo stellato e una luna bianca spuntino dal cielo e si librino sulle teste di chi ascolta in silenzio... Talvolta, alla fine del racconto il luogo si riempie di luce, altre volte resta un frammento di stella o un lembo di cielo tempestoso. Qualunque cosa resti, è un dono prezioso...", anche una piccola nuvola in estate.

lunedì 7 febbraio 2022

SI SEGA LA VECCHIA
(24 febbraio 2002 - II  domenica di Quaresima)

La segatura della Vecchia avveniva nella II domenica di Quaresima. Un po' come nella domenica precedente, le famiglie si riunivano in una casa, attorno ad un grande focolare. Venivano dispensati gli stessi dolci tipici della domenica prima, che però venivano preparati da un'altra massaia, così come il vino proveniva dall'uva della vigna di un altro componente della famiglia. L'unico elemento di diversità, una velata malinconia per il periodo di festa oramai prossimo alla fine.
Ci si riuniva perché la Vecchia doveva morire, doveva essere segata, perciò bisognava fare in fretta e consumare ciò che di grasso rimaneva, che non sarebbe potuto essere più consumato durante il periodo di penitenza precedente la Pasqua.
A tarda sera, alcuni componenti della famiglia, vestiti da legnaioli e armati con una grossa accetta e con una lunga sega dal nome "stuncature" (stroncatore), si presentavano in casa. Con loro portavano o un grosso ceppo rivestito di cenci, quasi a formare un manichino umano, che messolo per terra provavano a segare, o uno del gruppo si vestiva da vecchia e veniva segato con uno "struncature" di legno, che fattolo passare sul corpo, cinto da una catena metallica, imitava perfettamente il rumore prodotto da una sega di ferro a lavoro. La segatura andava avanti solo se la fatica era alleviata da corpose bevute di vino e mangiate di struffoli, e possiamo immaginare la continuazione di questa rappresentazione.
Nonostante ci fossero strofe di canzoni in rima, che tradizionalmente dovevano essere recitate, era facile che queste venissero messe da parte per dar spazio a battute spiritose, a volte allusive, a volte generate dalla confusione che il vino arrecava nella testa degli attori. Nel migliore dei casi, la serata si concludeva con gli ultimi calori di quel legno segato e i canti dei presenti e con essi le ultime faville di Carnevale.

***

La festa di "Si sega la Vecchia", portata nella piazza di Jelsi, rivisitando quella tradizionale, tende a far diventare oggetto di festa un simbolo della tradizione in grado di catalizzare ancora attenzione. Esso diventa l'oggetto che riempie uno spazio vuoto nell'arco delle feste di un gruppo sociale. Spazio che vuole essere oltre ad un momento di rigenerazione e ristoro dalle fatiche quotidiane, anche attenzione verso qualcosa che la storia ci ha dato e di cui oggi noi ne raccogliamo gli elementi più consoni al nostro modo di vedere il mondo.
Se una volta questa festa era l'oggetto di una catarsi sociale, non da meno oggi essa non può essere in grado di scacciare il male che ognuno di noi si porta addosso, fatto di tensioni incontrollate, di stress di ogni tipo, di rancori, di problemi irrisolti, di mancanza di protagonismo, di sconfitte subite e mali incontrollati.
In questo modo, in una rappresentazione come quella di "Si sega la Vecchia", si pone l'accento sul contrasto tra due momenti del vissuto quotidiano dell'uomo di oggi. Da una parte troviamo quello irrazionale, insieme un po' eccessivo e spudorato, un po' giocoso e carnevalesco, di cui la televisione spesso ne è l'interprete principale, e dall'altra quello più razionale e distaccato, spesso moralistico, a volte bigotto di chi si affida totalmente, chiudendo gli occhi, ad un unico credo, che non deve essere per forza solo religioso, e non affronta la realtà con senso critico. Nel nostro caso, quindi, l'oggetto della festa rimane tradizionalmente una Vecchia, non una vecchia qualsiasi ma una Vecchia dissoluta, incosciente e dispensatrice di mali. Tra i suoi mali, oltre a quelli che ognuno irrazionalmente le può attribuire, pensiamo che il più evidente sia quello rappresentato dalla sua testardaggine nel continuare a proteggere un'accozzaglia di inetti e malfattori. La Vecchia nutre figli viziati, giovani succubi, amori licenziosi trasformati in merce, pedofili planetari e sentimenti truculenti e perversi, usurai, trafficanti di ogni genere, diseredati: cieca accozzaglia umana che si oppone a qualsiasi cambiamento del proprio stato, che non vuole prendersi le responsabilità del proprio domani, scegliendo una posizione prona, supina, ambigua, pronta a lasciarsi andare a violenze di ogni genere, senza nessun riferimento, nessun orientamento.
La Vecchia, accusata di alimentare e proteggere nel suo seno questa sorgente di mali comuni, rendendo marcia e improduttiva una parte della società, viene ricercata, catturata, processata pubblicamente e riconosciuta colpevole di circonvenzione e quindi condannata alla pubblica segatura.
Così, oggi come ieri, alcuni legnaioli con lo "stuncature" arrivano sul patibolo con l'impegno di stroncare definitivamente la Vecchia oramai al tramonto, svuotata di senso, utile con le sue spoglie solo ad alimentare il "fuoco delle genti", elemento unico in grado di purificare e rigenerare gli animi.
In questo modo, anche questa volta, nel buio delle nostre notti, in cui spesso l'incoscienza e l'irrazionalità si presentano come sovrani assoluti sotto forma di fobie e depressioni, vince il ricordo che riporta l'uomo alle sue esperienze positive che gli permetteranno di capire, di conoscere meglio se stesso quale essere primigenio e uomo tecnologico alle prese con il domani di sempre.
Il ricordo, il pensiero di ciò che siamo stati e di ciò che vogliamo essere, i lazzi, le dissolute pazzie, il godimento lussurioso e sfrenato della Vecchia, nonché la sua fine crepitante tra la lama che incessante la taglia in due e tra i botti e i fuochi d'artificio, sono le calde faville invernali di un fuoco millenario pronte a lasciare nei cuori quel leggero tepore in grado di far superare i giorni della stagione buia e fredda che ogni uomo non può far a meno di vivere.
Per lo spettacolo saranno impegnati molti paesani che cercheranno di rappresentare quello che sicuramente una volta nella loro vita hanno rappresentato con i propri familiari.

Nel lavoro di animazione, che prevede un carro della Vecchia, un grande falò (il fuoco delle genti), i carabinieri a cavallo, un processo pubblico con avvocati e giudice, la pubblica segatura con canto e fuochi pirotecnici, saranno coinvolti in particolar modo i componenti del Centro Sociale per Anziani del Comune di Jelsi (la memoria storica di queste feste).

Grande impegno organizzativo sarà profuso dalle diverse associazioni locali: Circolo Culturale ULISSE, ADIS (Associazione di impegno sociale), Gruppo GYPTIA, Associazione Musicale SCHUBERT.

dal sito: https://digilander.libero.it/jelsicultura/si.sega.la.vecchia..htm




ROTTURA DELLA PIGNATA

(17 febbraio 2002 - I Domenica di Quaresima)

A Jelsi è in uso da sempre in famiglia, nella prima domenica di Quaresima, riunirsi nella casa dei nonni intorno a un grande focolare per prolungare il Carnevale. In questa occasione di festa una volta (ma in qualche modo ancora oggi) venivano preparati con cura e amore i dolci tipici del Carnevale, semplici sia nella preparazione sia negli ingredienti (acqua, sale, farina zucchero, strutto), i nomi: "struffeglie", "'o nòcche", "zeppole", "scurpelle", che venivano accompagnati, con ripetute inzuppate nei bicchieri "a schieffe", dal vino "saibèlle", in qualche caso da "l'acquate" (vino allungato con acqua). A rallegrare i presenti partecipavano i suonatori di "du' botte" (organetto) e il culmine della festa veniva raggiunto nel momento della rottura della "pignata", contenitore di terracotta, sempre presente lungo l'arco della giornata ai margini della brace del focolare, in cui le nonne facevano bollire i fagioli o le cotiche.
A turno, ognuno dei presenti veniva bendato e con un bastone doveva cercare di colpire la "pignata", che appesa con una cordicella ad un chiodo fissato ad una trave del soffitto veniva fatta oscillare. Essa conteneva dolci di ogni sorta, fichi secchi, "peròzze" (piccole pere invernali) e soprattutto caramelle e cioccolatini, gioia dei bambini allorquando cadevano a terra dopo la rottura. La rottura certamente avveniva dopo estenuanti prove fallite ad arte e quando oramai la serata era arrivata al punto in cui bisognava andare a dormire.


Questa occasione di festa, una volta vissuta soprattutto in famiglia, si è pensato di riviverla in Piazza Umberto I a Jelsi, in modo che la rievocazione di un momento festivo del passato e la sua traduzione nella contemporaneità, caratterizzino un prolungamento del Carnevale che Jelsi vuole vivere, anche in tempo di Quaresima, come pienezza culturale ed effimero quotidiano.
Nella "pignata", contenitore di energie e forze delle nuove generazioni (scrigno di ricchezze e di saggezza), non più quella vecchia e consumata attorno al fuoco dei nonni, ma quella costruita dalle sapienti mani di artisti modellatori di cartapesta, una grande famiglia, la comunità jelsese, ha deciso di mettere le ultime leccornie di Carnevale e qualche sorpresa sonante (un "centone"), in modo che il vissuto, invaso dal freddo delle guerre, da quella in Afganistan a quella in Palestina, nonché da tutti gli scandali e i morti a portata dei media, sia meno triste e proteso verso un futuro più sicuro e più fruttuoso.

https://digilander.libero.it/jelsicultura/pignata.htm

sabato 1 maggio 2021

Buccellatoanche pucellato o tortano o pigna, dal lat. buccella, ovvero boccone. 

Per gli antichi romani il buccellatum era un pane rotondo consumato dai legionari. Ne parla il Codex Iuris Civilis di Giustiniano, riferendo uno scritto del 360 dell’imperatore Costanzo. 

La prima notizia che si ha di questo dolce dopo la caduta dell'Impero romano, che ritroviamo con differenti ingredienti sia nella pasticceria lucchese sia in quella siciliana, è contenuta nel 'Libro delle scadenze' di Federico II: Quaternus excadenciarum, dove il buccellato, due per la precisione, è donato alla Curia da un feudatario di nome Randisio che aveva le terre a Cercemaggiore e a Jelsi nell'attuale Molise, allora Capitanata. Dava per le scadenze di Cercia «… dodici denari, a Natale una spalla di maiale, una coppia di  buccellati, e un lavoro di mietitura.» Il documento risale all’anno 1249.

Il dolce è sopravvissuto nel tempo, cambiando il contenuto ma non la forma circolare. Nel suo libro "Jelsi e il suo territorio" (1953), Vincenzo D'Amico riporta che «Nella ricorrenza festiva di S. Biase [3 febbraio a Jelsi] vengono portati in Chiesa grosse ciambelle di pane (piccillatë) che vanno poi distribuite ai divoti.» Questa tradizione oramai scomparsa si associa a quella milanese, patria del più amato dolce natalizio italiano, in cui nel giorno del Santo di Sebaste si usa mangiare l'ultimo panettone della stagione.

Oggi questo dolce chiamato in dialetto pëccëllatë è prodotto ancora nei forni familiari e semi industriali di Jelsi ed è diventato il dolce tipico di Pasqua. 

Notiamo così come la tradizione si rinnova e si traspone nel tempo. 




giovedì 4 febbraio 2021


CASTELLI IN MOLISE

Molta storia molisana ci è raccontata dalle vicende legate ai castelli medievali, i quali perlopiù affondano le origini nella dominazione longobarda e normanna. Furono proprio quest'ultimi a fondare il Contado di Molise, una regione politica-amministrativa che è rimasta quasi integra fino ad oggi.