domenica 17 dicembre 2023

Altrove





"Fatti non foste per vivere come bruti, ma per perseguire virtù e canoscenza." Quando vogliamo parlare dell'uomo, bisogna ritornare sempre ai classici, a Omero, a Dante. 
Il sommo poeta sottolinea l'idea che l'umanità è chiamata a raggiungere obiettivi più elevati come la virtù e la conoscenza, anziché vivere solo per soddisfare gli istinti animali e materiali.

A conclusione della lettura del libro, sono tornato subito alla citazione di Kavafis che Lombardi fa all'inizio del libro, che si riferisce a Itaca, l'isola lasciata da Ulisse per i suoi viaggi, l'isola mitica che ognuno di noi lascia e alla quale si ritorna tanto saggi ed  esperti che solo allora ne possiamo apprezzare il valore.

Il lavoro di Lombardi penso sia di uno studioso attento a cogliere i dati scientifici attraverso la storicizzazione di quelli che sono i fatti. Il suo impegno è superare la retorica della diaspora, tanto da mostrarne i segni più vividi e più drammatici attraverso la testimonianza diretta di chi maggiormente l'ha vissuta, non solo come semplice testimone ma anche come uomo che ne ha toccato i punti più critici e più alti dal punto di vista delle conoscenze e dell'esperienza nei vari ambiti della vita: da quello artistico e letterario a quello della politica e dell'economia, per toccare infine quello scientifico e della ricerca.

Lo fa con il metodo dell'intervista e dello storico con un'attenzione alla sociologia. Le venti interviste sono vere e proprie piccole autobiografie che mettono in luce l'importanza del luogo degli affetti, composto non solo di carezze e attenzioni ma anche di discorsi che disvelano la scoperta del mondo. I percorsi di vita dei protagonisti suggeriscono un "altrove", un luogo dove si affermano sia le proprie aspirazioni sia il proprio io. 

Lo spazio da cui si parte per la scoperta del mondo e dell'altrove è quel microcosmo chiamato Molise, semplice e genuino, fatto di campagna e piccole strade, luoghi minimi dell'anima, terra mitica a cui fare ritorno (Rimanelli, Monaco, Vaccaro, ...), ma anche luogo di partenza o di ritrovo che è in grado di dare quel sostrato psicologico per far crescere caratteri forti in grado di affrontare le asperità del vissuto oltre le quali si arriva a grandi traguardi nell'ambito degli studi e delle scienze (Antonelli, Persichilli, Oriundo, Iannacito, Forte, Palladino, Casilli).

Comunque in questo libro, che si innesta in quella letteratura della migrazione, Norberto Lombardi riesce, trovandosi di fronte a stili e personaggi appartenenti a periodi diversi, a dare una fluidità di contenuti in cui si disvela una traccia che porta quasi a una sublimazione di quello che è il dramma della emigrazione di ieri come di oggi. 

Ed è proprio grazie alle ultime testimonianze di due protagonisti dell' "Altrove", una l'abbiamo qui stasera con noi, Simona Palladino - docente alla Liverpool Hope University - l'altro è Antonio Casilli - professore ordinario di sociologia nella scuola di telecomunicazioni dell'Istituto Politecnico di Parigi - due scienziati molisani che conoscono molto bene la società mondiale, che riusciamo ad intendere esplicitamente uno dei tanti sentimenti che hanno segnato le vite di tutti gli "intellettuali" del libro di Lombardi, in cui spesso le parole "fuga", "ritorno" e "origine" hanno un peso enorme, una valenza psicologica di riscatto che segnano il carattere dei protagonisti stessi. 

I due professori ci lasciano capire concretamente perché si sceglie un "altrove". Palladino ci parla del senso della libertà di dire non mi sono accontentata, di dimostrare a se stessi e al mondo "posso fare di meglio" qualcosa che non ha prezzo e spesso vale la vita stessa, soprattutto se il potere ci vuole piegati al proprio edonismo.

Con una veduta sulle problematiche del Mondo, invece, da esperto di economia dei dati e da informatico, Casilli ci mette in guardia sulla retorica della diaspora rispetto alle nuove migrazioni e ai nuovi poteri che umiliano l'umanità e ci parla di quanto la nostra società globale abbia cambiato le prospettive rispetto alla dignità umana, evidenziando come in una società retta dalle multinazionali dell'informatica stia crescendo uno sfruttamento che fa emergere un "proletariato del digitale".

Mi chiedo, allo sfruttamento e all'umiliazione in passato si poteva rispondere con una fuga dalla propria terra per cercare un "altrove", oggi rischiamo persino di non poter sognare quell'altrove?



Jelsi, 27 luglio 2023 




Leggendo "Oltre la Via", ci immergiamo in un arco di tempo di circa un secolo in un mondo fatto di terra e di uomini che da essa traggono sostentamento, un mondo dove imperversano temporali della vita, fatto di corpi lacerati dalla fatica e dalla sofferenza. Anime affrante che sembrano rasserenarsi nel corso del tempo solo arrivando negli anni vicino a noi, quando arriva la luce del progresso, ma esse subito si velano di un'onirica inquietudine che fa prefigurare le catastrofi del mondo attuale e di un Molise in affanno.    

"Oltre la via" è un'opera che ogni molisano attempato avrebbe voluto scrivere, chi è nato nei primi decenni del dopoguerra ci si ritrova, perché quel mondo lo ha in gran parte vissuto. 

Dall'esterno, attraverso un narratore onnisciente, l'autore riesce a dipanare una serie di fatti e azioni con una prosa attenta, direi levigata, in cui la descrizione prova a riempire tutti gli spazi della immaginazione, dando una profonda definizione agli avvenimenti e agli ambienti in cui si muovono i protagonisti. 

L'autore con la sua narrazione riesce ad entrare nel pensiero profondo dei personaggi fino a descriverne l'anima, imprescindibile dal contesto in cui sono inseriti.

Persino i luoghi, tracciati nei confini, attraverso il ricordo e l'uso del dialetto sembrano vivere di odori e sensazioni tattili che ci riportano a sentire l'affanno di vite umili, ombre della povertà, che si allungano sulla terra in un disperdersi di sensazioni drammatiche appese allo strazio della fine. (p.37) 

Il paese, i vicoli e le campagne sono segnati dall'acqua che scorre, che bagna e disseta, disseta persino gli spasmi di un amore rubato, quello delle passate generazioni di giovani che attorno ad una fontana iniziavano le loro danze per accasarsi.

Èd proprio l'acqua che in un contrappunto segna la fine del racconto. Carmela, la mamma di Valentino, si mostra con i piedi immersi nell'acqua torbida, un'immagine che ci suggerisce la realtà odierna in cui è difficile guardare con trasparenza.

Come in un romanzo esotico, lontano, fatto di una solitudine confinata in ciò che rimane di una terra antica, Cornacchione narra la saga di una famiglia. In questo modo Limosano, Santo Stefano e Campobasso rimangono topos del ricordo. Tutto si dipana in una serie di riferimenti storici tra il fascismo e gli inizi del secondo millennio, dalla radio a valvole e l'emigrazione alle Cantine aperte di Limosano. Un percorso dove i coniugi Armando e Carmela e il figlio Valentino vivono assieme a fratelli, nipoti, parenti e vicini, vicende che rappresentano uno spaccato molisano. Tutti figli di una Terra che si mostra in difficoltà, un luogo che accoglie ma non risolve. Dove resta completamente assente un ceto che dirige, che spesso si trasferisce nelle città più grandi, un ceto fatto di possidenti, meglio proprietari, che persino negli anni vicino a noi rifiuta ogni segno di rinnovamento culturale, tanto che la sola vista dell'immagine di un rivoluzionario come Ché Guevara dipinta su un muro può creare inquietudine e rifiuto.

La fabula scorre nella descrizione di un Mondo devastato nell'anima. Le difficoltà vengono affogate nell'alcool. 

Il Molise è una terra martoriata nelle vicende umane su cui incombe una drammatica esistenza. In cui ci si sente sempre lontani dal clamore dei grandi accadimenti della storia, dove ancora oggi dietro le pieghe della presunta innovazione, Carmela, donna tanto amata dall' ultimo figlio Valentino, avuto a tarda età, appare piangendo lacrime di dolore. Un dolore atavico che ritroviamo nelle immagini di "Alba e non alba" di Luigi Di Jacovo o nella rassegnazione dei "cafoni" di Silone, come pure in quello urlato da Immacolata per la morte di  Luca Marano nelle "Terre del Sacramento" di Jovine. Un dolore che in Giovannino Cornacchione si dissolve e si acquieta nella poesia, flusso ancestrale che tacitamente gli parla dal passato e che cancella ogni residuo di certezza. 

Osservando le occorrenze, oltre alle parole fatica, terra, amore, morte, vecchio, freddo e lacrime, la parola acqua assieme a vita ricorrono con più frequenza. Esse si compenetrano in essenza cristallina in cui si discioglie la bellezza.

"Armando tornò senza preavviso. Scese da un autobus sgangherato nella piazza desolata del paese, un pomeriggio di luglio, mentre pioveva a dirotto e in giro non c'erano neanche i cani. Scese lentamente, tirandosi dietro. un vecchio zaino militare e, senza curarsi della pioggia, si incamminò con passo insicuro e stanco verso la scalinata ripida che conduceva nel borgo antico. L'acqua scendeva ovunque rumorosa, tiepida, creando torbidi rigagnoli che, zigzagando tra gli usci, sparivano pigramente tra le nebbie basse della valle, formando cascatelle schiumose e pozzanghere dentro le quali si fermava a sguazzare con gli scarponi bucati avuti in dotazione dall'esercito anni addietro. Avanzava a passo lento, annaspando, ma era proprio quella pioggia a dargli vigore. Sentiva le gocce scorrergli lungo la schiena e pensava che negli ultimi anni, da quando era partito, tanta bellezza non gli era mai capitata, l'aveva completamente dimenticata." 

Spesso l'acqua assieme al freddo e al gelo, mordono così forte le vite che finanche la morte deve fermarsi. Bisogna aspettare cinque giorni prima di seppellire Nicolino 

"... tutti si strinsero intorno in un abbraccio solidale e disperato. In quella casa era sceso un freddo glaciale, peggiore della tormenta. E non ci sarebbe più stato fuoco capace di intiepidire quelle vecchie mura. Il gelo era palpabile, si poteva sfiorare con le mani, si sentiva in ogni sguardo, in ogni respiro, dentro quei gemiti stanchi rivolti  all'angelo gelo ibernato ...". (pp.43, 64, 66,145,195). 

Un freddo dove l'unica fiammella a sopravvivere sono la generosità e il valore etico di un mondo non fatto di vinti, né di maschere affidate all'ironia della esistenza, ma da semplici sventurati abbandonati a un destino che ha il sapore della fame e della terra, l'unica dea che dà scampo e porta alla sopravvivenza minima e alla gioia di esistere. Quella gioia che in inverno deve fare i conti con la legna, limitata della catasta, che deve bastare fino alla fine della stagione fredda. Una gioia che si ravviva al calore dei primi soli di primavera, allorquando si è sicuri di averla scampata.

Il racconto diventa così un ricordo primordiale in cui la ragione ha la meglio sull'istinto delle persone, i cui drammi germinano nella terra, quella che si attacca al corpo, alle scarpe e ai vestiti, e che nei temporali irruenti intorbida le acque dei fiumi, la stessa dalla quale germogliano querce che, nonostante siano spinte dal vento impetuoso, resistono al tempo.