lunedì 1 agosto 2022


Un momento della presentazione del libro
Jelsi - 31 luglio 2022


COME UNA PICCOLA NUVOLA

(Cikala Mahpiya)

di Pierluigi GIORGIO

Ed. Ephemeria, 2021


Sarà una piccola nuvola, è una piccola nuvola che il cielo ospita d’estate, è Piccola nuvola il nome indiano dell’autore di cui parliamo. 

Cikala Mahpiya, chiamano gli Indiani d'America Pierluigi Giorgio.

Una piccola nuvola che racchiude in questo libro un sé, che è il vissuto di una vita. Un percorso di crescita interiore che prova a mettere ordine all’accadere quotidiano. 

Sospinto ad entrare nella visione del mondo degli Indiani d’America, condividendone le loro visioni e la loro filosofia, l’autore non abbandona il suo lettore ma lo prende per mano e lo guida continuamente a vedere e a sentire ciò che i suoi sensi percepiscono. Tutto inizia dalle difficoltà nel comprendere la società di oggi, dove le apparenze e le maschere, come quelle pirandelliane, segnano la crisi dell’uomo. Non a caso la crisi del protagonista nasce mentre interpreta l’Enrico IV del premio Nobel siciliano.

Enrico IV è vittima non solo della follia ma dell'impossibilità di stare in sintonia con una realtà che non gli si confà, essendo ormai stritolato dal ruolo che gli è stato dato. 

Enrico IV di Pirandello è, quindi, metafora dell'uomo moderno con tutte le sue problematiche. 

Sebbene pazzo, lo si connota come personaggio positivo, distruttore di verità fittizie ma, al contempo, è anche sinonimo di repressione volontaria, di volontario senso della rinuncia.

È un po’ quello che succede al pittore Mouline a cavallo dell’Ottocento, che si isola dal mondo che sempre più viene pervaso dal mercato e dall’industria. È quello che succede al protagonista attore, che rompe l’incantesimo di una vita di successo, sempre uguale, ripetitiva, fatta di maschere che sempre più  perdono la loro forza. 

Unica soluzione: rifugiarsi in Molise. Terra d’origine dalla quale in gioventù se ne era allontanato, ma che poi ritrova  riconoscendone la grande forza che lo rigenera e lo spinge a maturare una nuova consapevolezza: tutta la Terra è il nostro mondo, e di essa va cantato ogni essere che ci riporta a quegli equilibri rappresentati dai valori vissuti e praticati che ritroviamo nei personaggi, che mostrano l’essenziale, rappresentato da il bene e il vero. 

Così Saint Exupery ne Il Piccolo Principe: “Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

In quest’opera si canta il Molise. Un’Arcadia riconquistata grazie al sacrificio che parte dall’arte teatrale, che diventa arte universale vissuta attraverso gli occhi e i pastelli di un uomo, l’artista Charles Mouline, che ha saputo abbandonare il successo dominato dal mercato per abbracciare il gesto artistico assoluto, compiuto attraverso la rappresentazione della luce. La stessa che il nostro autore sembra trovare nella ritualità della “Sun Dance”, la danza del sole degli Indiani d’America.

L’esperienza tra gli indiani infonde nell’autore una riconquista di un mondo spontaneo che fa ben capire come l’uomo si sia allontanato dalla natura. 

La “crisi” viene così raccontata attraverso tre storie parallele, che hanno il sapore dell’intreccio che a momenti si fa “giallo”. Dalla osservazione, dagli occhi sgranati dei personaggi, aperti in modo eccessivo, sembra che l’autore voglia far passare l'impossibilità di comunicare tra gli uomini. 

L'espressione  “… guardandomi negli occhi, proprio dentro gli occhi…”  - della sua compagna - prefigura una comunicazione impossibile in cui mancano azioni o parole, un vuoto dell’anima che può essere riempito solo con un ritorno alla natura, alle cose semplici, al calore della terra “cruda e rigogliosa”, al  latte appena munto, allo scroscio dell’acqua dei ruscelli, ai germogli che affiorano e fanno primavera, al battito delle folate di vento, quel vento difficile da cantare e tanto caro a Gian Maria Volonté. 

In questo modo si sovrappongono fili di vita e la storia si fa macchinosa, ma poi l’intreccio si dipana attraverso personaggi diversi, paesani, umili uomini dalla profonda saggezza, macchiette teatrali che recitano la loro parte solo per sostenere lo spettacolo della vita, uomini sconfitti in partenza, dipinti su uno sfondo che è la genuina bellezza delle terre del Molise: rocce e prati di montagne che affiorano in valli digradanti, sfumature di cielo e di terre, dove queste si impastano di sapore amaro e di storia di anni, di secoli e millenni. Tutto diventa un caleidoscopio di voci e pensieri, mai sfocati, sempre vividi, attraversati da un sentimento d’amore per le cose e per le persone: anche quando i colori mutano e, come diceva Moulin, si fa fosco il cielo e “le cose assumono un’espressione tragica di potenza e di terrore”.  Allorquando sembra che l’amore si tramuti in tristezza, la stessa che pervade il ricordo dei tempi passati, un raggio di sole interrompe il pianto e dà vita al sogno per ricominciare “da lì, mano nella mano”.

La narrazione che all’inizio è interna, dove il tempo è segnato dai giorni, successivamente si fa esterna, forse un falco, forse una nube racconta da lassù nel cielo, conosce tutto dei suoi personaggi e piano piano li guida, scende tra loro e ne canta l’anima, attraverso personali parole e di altri poeti. Anche la prosa si fa alta. Le anime dei personaggi principali si uniscono all’unisono con quella dell’autore, il quale sembra voglia sentirsi vicino al pittore Moulin, dal quale ne assorbe la linfa che ancora scorre tra i luoghi del Molise. Un altro da sé sembra perdersi tra le montagne di Castelnuovo e del Molise, un alter ego perduto e ritrovato. 

Tutto diventa familiare, persone, luoghi con cui l’autore entra in empatia e ne riconosce la forza che lo cura: unico ristoro, per un corpo vecchio e una mente stanca affollata da un tempo vissuto lontano in un mondo alieno che prende e non dà. 

Il Molise si fa terra personificata nei suoi colori e nei suoi elementi. Una madre ritrova nella carezza delle onde del mare il figlio scomparso nei gorghi marini della seconda guerra mondiale, lo scroscio del ruscello è quello che trasporta nei sogni e nei ricordi diventando acqua che culla e addormenta e annulla le fatiche e rigenera il tempo che consuma. 

Nella parte finale, quasi a chiudere un cerchio, il ritorno alla narrazione interna in prima persona. Lo scandire del tempo è segnato da pagine di diario che ci riportano alle esperienze dirette: soprattutto a quella tanto desiderata della “Sun Dance”  fatta con un ritorno tra gli indiani. Un’esperienza che conclude un percorso di crescita interiore, in cui riusciamo a capire che la libertà si coglie custodendo quel sentimento di rispetto per le cose e per gli uomini, dove i rapporti autentici, il bene per le persone deve essere voluto. Mentre il male spesso è il rifiuto di un sogno, è la distrazione per una persona cara, è la mancanza di coraggio.

Come in un'idea di Grotowschi, l'attore narratore Pierluigi Giorgio fa della sua arte lo strumento che gli permette di liberare ricordi ancestrali ed energie cosmiche. Il Molise è la sua culla, il luogo dove la sua arte si fa racconto così come suggerisce Clarissa Pinkola Esteés:

"Sempre quando si narra una favola, cala la notte. Non importa il posto, il tempo o la stagione: raccontare favole fa sì che un cielo stellato e una luna bianca spuntino dal cielo e si librino sulle teste di chi ascolta in silenzio... Talvolta, alla fine del racconto il luogo si riempie di luce, altre volte resta un frammento di stella o un lembo di cielo tempestoso. Qualunque cosa resti, è un dono prezioso...", anche una piccola nuvola in estate.

lunedì 7 febbraio 2022

SI SEGA LA VECCHIA
(24 febbraio 2002 - II  domenica di Quaresima)

La segatura della Vecchia avveniva nella II domenica di Quaresima. Un po' come nella domenica precedente, le famiglie si riunivano in una casa, attorno ad un grande focolare. Venivano dispensati gli stessi dolci tipici della domenica prima, che però venivano preparati da un'altra massaia, così come il vino proveniva dall'uva della vigna di un altro componente della famiglia. L'unico elemento di diversità, una velata malinconia per il periodo di festa oramai prossimo alla fine.
Ci si riuniva perché la Vecchia doveva morire, doveva essere segata, perciò bisognava fare in fretta e consumare ciò che di grasso rimaneva, che non sarebbe potuto essere più consumato durante il periodo di penitenza precedente la Pasqua.
A tarda sera, alcuni componenti della famiglia, vestiti da legnaioli e armati con una grossa accetta e con una lunga sega dal nome "stuncature" (stroncatore), si presentavano in casa. Con loro portavano o un grosso ceppo rivestito di cenci, quasi a formare un manichino umano, che messolo per terra provavano a segare, o uno del gruppo si vestiva da vecchia e veniva segato con uno "struncature" di legno, che fattolo passare sul corpo, cinto da una catena metallica, imitava perfettamente il rumore prodotto da una sega di ferro a lavoro. La segatura andava avanti solo se la fatica era alleviata da corpose bevute di vino e mangiate di struffoli, e possiamo immaginare la continuazione di questa rappresentazione.
Nonostante ci fossero strofe di canzoni in rima, che tradizionalmente dovevano essere recitate, era facile che queste venissero messe da parte per dar spazio a battute spiritose, a volte allusive, a volte generate dalla confusione che il vino arrecava nella testa degli attori. Nel migliore dei casi, la serata si concludeva con gli ultimi calori di quel legno segato e i canti dei presenti e con essi le ultime faville di Carnevale.

***

La festa di "Si sega la Vecchia", portata nella piazza di Jelsi, rivisitando quella tradizionale, tende a far diventare oggetto di festa un simbolo della tradizione in grado di catalizzare ancora attenzione. Esso diventa l'oggetto che riempie uno spazio vuoto nell'arco delle feste di un gruppo sociale. Spazio che vuole essere oltre ad un momento di rigenerazione e ristoro dalle fatiche quotidiane, anche attenzione verso qualcosa che la storia ci ha dato e di cui oggi noi ne raccogliamo gli elementi più consoni al nostro modo di vedere il mondo.
Se una volta questa festa era l'oggetto di una catarsi sociale, non da meno oggi essa non può essere in grado di scacciare il male che ognuno di noi si porta addosso, fatto di tensioni incontrollate, di stress di ogni tipo, di rancori, di problemi irrisolti, di mancanza di protagonismo, di sconfitte subite e mali incontrollati.
In questo modo, in una rappresentazione come quella di "Si sega la Vecchia", si pone l'accento sul contrasto tra due momenti del vissuto quotidiano dell'uomo di oggi. Da una parte troviamo quello irrazionale, insieme un po' eccessivo e spudorato, un po' giocoso e carnevalesco, di cui la televisione spesso ne è l'interprete principale, e dall'altra quello più razionale e distaccato, spesso moralistico, a volte bigotto di chi si affida totalmente, chiudendo gli occhi, ad un unico credo, che non deve essere per forza solo religioso, e non affronta la realtà con senso critico. Nel nostro caso, quindi, l'oggetto della festa rimane tradizionalmente una Vecchia, non una vecchia qualsiasi ma una Vecchia dissoluta, incosciente e dispensatrice di mali. Tra i suoi mali, oltre a quelli che ognuno irrazionalmente le può attribuire, pensiamo che il più evidente sia quello rappresentato dalla sua testardaggine nel continuare a proteggere un'accozzaglia di inetti e malfattori. La Vecchia nutre figli viziati, giovani succubi, amori licenziosi trasformati in merce, pedofili planetari e sentimenti truculenti e perversi, usurai, trafficanti di ogni genere, diseredati: cieca accozzaglia umana che si oppone a qualsiasi cambiamento del proprio stato, che non vuole prendersi le responsabilità del proprio domani, scegliendo una posizione prona, supina, ambigua, pronta a lasciarsi andare a violenze di ogni genere, senza nessun riferimento, nessun orientamento.
La Vecchia, accusata di alimentare e proteggere nel suo seno questa sorgente di mali comuni, rendendo marcia e improduttiva una parte della società, viene ricercata, catturata, processata pubblicamente e riconosciuta colpevole di circonvenzione e quindi condannata alla pubblica segatura.
Così, oggi come ieri, alcuni legnaioli con lo "stuncature" arrivano sul patibolo con l'impegno di stroncare definitivamente la Vecchia oramai al tramonto, svuotata di senso, utile con le sue spoglie solo ad alimentare il "fuoco delle genti", elemento unico in grado di purificare e rigenerare gli animi.
In questo modo, anche questa volta, nel buio delle nostre notti, in cui spesso l'incoscienza e l'irrazionalità si presentano come sovrani assoluti sotto forma di fobie e depressioni, vince il ricordo che riporta l'uomo alle sue esperienze positive che gli permetteranno di capire, di conoscere meglio se stesso quale essere primigenio e uomo tecnologico alle prese con il domani di sempre.
Il ricordo, il pensiero di ciò che siamo stati e di ciò che vogliamo essere, i lazzi, le dissolute pazzie, il godimento lussurioso e sfrenato della Vecchia, nonché la sua fine crepitante tra la lama che incessante la taglia in due e tra i botti e i fuochi d'artificio, sono le calde faville invernali di un fuoco millenario pronte a lasciare nei cuori quel leggero tepore in grado di far superare i giorni della stagione buia e fredda che ogni uomo non può far a meno di vivere.
Per lo spettacolo saranno impegnati molti paesani che cercheranno di rappresentare quello che sicuramente una volta nella loro vita hanno rappresentato con i propri familiari.

Nel lavoro di animazione, che prevede un carro della Vecchia, un grande falò (il fuoco delle genti), i carabinieri a cavallo, un processo pubblico con avvocati e giudice, la pubblica segatura con canto e fuochi pirotecnici, saranno coinvolti in particolar modo i componenti del Centro Sociale per Anziani del Comune di Jelsi (la memoria storica di queste feste).

Grande impegno organizzativo sarà profuso dalle diverse associazioni locali: Circolo Culturale ULISSE, ADIS (Associazione di impegno sociale), Gruppo GYPTIA, Associazione Musicale SCHUBERT.

dal sito: https://digilander.libero.it/jelsicultura/si.sega.la.vecchia..htm




ROTTURA DELLA PIGNATA

(17 febbraio 2002 - I Domenica di Quaresima)

A Jelsi è in uso da sempre in famiglia, nella prima domenica di Quaresima, riunirsi nella casa dei nonni intorno a un grande focolare per prolungare il Carnevale. In questa occasione di festa una volta (ma in qualche modo ancora oggi) venivano preparati con cura e amore i dolci tipici del Carnevale, semplici sia nella preparazione sia negli ingredienti (acqua, sale, farina zucchero, strutto), i nomi: "struffeglie", "'o nòcche", "zeppole", "scurpelle", che venivano accompagnati, con ripetute inzuppate nei bicchieri "a schieffe", dal vino "saibèlle", in qualche caso da "l'acquate" (vino allungato con acqua). A rallegrare i presenti partecipavano i suonatori di "du' botte" (organetto) e il culmine della festa veniva raggiunto nel momento della rottura della "pignata", contenitore di terracotta, sempre presente lungo l'arco della giornata ai margini della brace del focolare, in cui le nonne facevano bollire i fagioli o le cotiche.
A turno, ognuno dei presenti veniva bendato e con un bastone doveva cercare di colpire la "pignata", che appesa con una cordicella ad un chiodo fissato ad una trave del soffitto veniva fatta oscillare. Essa conteneva dolci di ogni sorta, fichi secchi, "peròzze" (piccole pere invernali) e soprattutto caramelle e cioccolatini, gioia dei bambini allorquando cadevano a terra dopo la rottura. La rottura certamente avveniva dopo estenuanti prove fallite ad arte e quando oramai la serata era arrivata al punto in cui bisognava andare a dormire.


Questa occasione di festa, una volta vissuta soprattutto in famiglia, si è pensato di riviverla in Piazza Umberto I a Jelsi, in modo che la rievocazione di un momento festivo del passato e la sua traduzione nella contemporaneità, caratterizzino un prolungamento del Carnevale che Jelsi vuole vivere, anche in tempo di Quaresima, come pienezza culturale ed effimero quotidiano.
Nella "pignata", contenitore di energie e forze delle nuove generazioni (scrigno di ricchezze e di saggezza), non più quella vecchia e consumata attorno al fuoco dei nonni, ma quella costruita dalle sapienti mani di artisti modellatori di cartapesta, una grande famiglia, la comunità jelsese, ha deciso di mettere le ultime leccornie di Carnevale e qualche sorpresa sonante (un "centone"), in modo che il vissuto, invaso dal freddo delle guerre, da quella in Afganistan a quella in Palestina, nonché da tutti gli scandali e i morti a portata dei media, sia meno triste e proteso verso un futuro più sicuro e più fruttuoso.

https://digilander.libero.it/jelsicultura/pignata.htm